Biennale di Venezia - Un lunapark per intellettuali(2017)
Mi telefona Carlo Emanuele Bugatti, una mattina di marzo 2017, e mi dice senza preamboli: “Passeri, Lei deve andare alla Biennale”. Conosco Bugatti da una quindicina di anni, potrei dire in sintesi che siamo due vecchi amici che continuano a darsi del lei. Gli ho risposto, credo : “Devo proprio?”. Lui dice di sì, io rimango in silenzio per qualche secondo, poi accenno un rassegnato “d’accordo” e mi preparo all’idea. Biennale di Venezia? Non capisco molto di arte moderna, e la città mi sa di cartoline, di gondole, maschere souvenir prodotte in Cina e trattorie per turisti. Però, per contro, lo so bene, fremo sempre in attesa di muovermi, Roma mi sta stretta, e poi a Venezia ci saranno altri amici fotografi di Senigallia. Quindi si va.
Sbarco a Venezia dal filobus che mi ha caricato a Chioggia. Il tempo è uggioso, e Venezia, sotto le nuvole grigie, è comunque strepitosa (qui dovrebbero abolire le eventuali giornate di sole, non le si addicono). Ho una delle due macchine fotografiche appesa al collo, e mi sforzo disperatamente di resistere alla tentazione di scattare una foto al Canal Grande. In compenso, se io mi astengo, già sciamano attorno carovane di orientali con cellulari e apparecchi di ogni tipo: l’ingresso al luna park è aperto, e allora click, dagli con le foto. Venezia, in fondo, è essa stessa una fotografia, perché è ingannevole, ambigua, e come la foto, si esprime sempre e comunque al passato. Venezia, bagascia, si concede a tutti. E’ una non-città, un non-luogo, ma anche un luogo comune. E’ una donna talmente bella da rendere difficile pensare che possa realmente possedere un’anima. E i veneziani lentamente l’abbandonano, perché un posto così non dà tregua.
Eppure, ad essere sinceri, di fotografie anch’io ne scatto, sarà forse proprio per tutta quella gente attorno. Del resto, mi serve più di un’ora per arrivare all’ingresso della Biennale. Traverso a piedi tutto il centro, e in fondo spero di perdermi, perché qui dietro l’angolo, prima o poi, dovrà comunque comparire Jago, o Casanova, o lo smarrito Aschenbach di Thomas Mann.
Ma non mi perdo, e finisce invece che arrivo puntuale all’ingresso della Biennale. C’è una fila tranquilla di giornalisti, critici, intellettuali, artisti, addetti ai lavori, presenzialisti. Ogni tanto da una parte si alza una mano in cenno di saluto, e dall’altra parte risponde un sorriso o un’esclamazione un po’ ipocrita di sorpresa. Poi, un po’ alla volta, si entra, e il tour inizia. Bellissimo.
Sì, è stato bellissimo perché Venezia è un posto irreale, e la Biennale è un ulteriore luogo irreale all’interno del primo. Scatole cinesi di sogni. E allora, per il fotografo è gioia, perché tutto è in posa, tutto è strano, tutto sta in bilico, tutto chiede di essere fotografato, compulsivamente. In fondo, visto e considerato che la vita è ambigua, e non ha un senso chiaro, momenti e luoghi come questi finiscono per essere la celebrazione stessa dell’esistenza umana. La Biennale ti prende, è una Disneyland inesorabile, non puoi perderne nulla. Ho impiegato tre giorni per vedere (quasi) tutto, in una costante frenesia che contrastava soltanto con un’inevitabile stanchezza fisica. E’ stato come entrare in un gigantesco videogame, in un parco dei divertimenti senza limiti, popolato di personaggi veramente rari. E ancor di più, la Direzione della Biennale, con un colpo di genio, aveva progettato l’espansione della mostra al difuori del suo limite abituale: Venezia infatti nascondeva tra le sue calli un’infinità di mostre e performances alternative, lampi di modernità che risplendevano tra le pieghe e gli ori dell’antica città.
Attorno a me, intellettuali a sciami, addetti ai lavori, voglia di stupire, raccontare, farsi vedere. Performances ovunque: ballerine su lastre di lamiera, indigeni amazzonici, effetti speciali, artisti en travesti. Come dire ? Venghino, signori, venghino. Lo spettacolo procede. Noi siamo qui, fotografiamo, felicemente passivi nella baraonda. MI passano davanti Eva & Adele, due artisti tedeschi, ermafroditi per definizione, calvi e truccatissimi, con piccoli ombrellini da sole di pizzo bianco e gonne di chiffon. Thierry Geoffreoy, in arte Colonel, sorride al mio obiettivo sotto un elmetto blu dell’ONU, e nel padiglione olandese due o tre giovani volenterosi sbucano da fori praticati in una roulotte parcheggiata al centro, per andare a turno a ficcare la testa in un grande cuscino. Tristan Tzara impallidirebbe d’invidia.
Non facile fotografare, tecnicamente parlando. C’è profusione di buio, il padiglione italiano consumerà al massimo dieci watt l’ora. Si scatta sperando soltanto nella mano ferma.
Passano veloci due giorni. Poi si riparte - sempre troppo presto - e lascio Venezia con il costante pensiero delle foto che avrei potuto scattare e non ho scattato. Ma questa è la storia di una vita, e non c’entra. La mente, con il passare dei giorni, rivive quello che ha vissuto. I confini, è ben chiaro, sono ormai in dissoluzione. E’ scomparso il limite dei territori, sia quelli storico-politici che quelli intellettuali, e la globalizzazione, ormai, è ben altro che un problema macroeconomico. Tutto è contaminato, indefinibile, nulla è più sacro e ne va preso atto. Il tempo va veloce, troppo veloce: l’ elettronica del silicio ha relegato il pensiero nella preistoria del mondo. Venezia, intanto, lentamente affonda, se ne parla sempre e nessuno in realtà se ne rende conto. L’ho pensato osservando quelle due grandi mani bianche di Quinn, arrivate dal mare, messe a sorreggere senza troppa convinzione le pareti di Ca’ Sagredo. Erano belle, bianche , rassicuranti.
Ma non durevoli. Pare, infatti, che ormai abbiano tolto anche quelle, e che nessuno sappia cosa farsene. Chi diceva, tempo fa, che l’arte è eterna?
Carlo Emanuele Bugatti calls me one morning in March 2017, and tells me without preamble: "Mr. Passeri, you must go to the Biennale"(I've known Bugatti for about fifteen years, I could say in a nutshell that we are two old friends who keep on being a bit formal). I reply "Do I have to?" He says yes, I remain silent for a few seconds, then I end with a resigned "OK" and prepare myself for the idea. Biennale of Venice? I do not understand much about modern art, and my idea of the city tastes of postcards, gondolas, souvenir-masks made in China and taverns for tourists. But, on the other hand, I know it well, I'm still shuffling, waiting to move, Rome is tight to me, and, last but not least, in Venice I will meet other friends from Senigallia. So here we go.
I arrive in Venice with a trolley bus from Chioggia. The weather is gloomy, and Venice, under the gray clouds, is still amazing (here they should abolish sunny days, they do not suit with her). I have one of the two cameras hanging from my neck, and I try desperately to resist the temptation to take a picture of the Grand Canal. On the other hand, even if I refrain, long caravans of oriental people with their mobile phones and all kinds of equipment swarm around already: the entrance to the fun fair is open, and then-click -go on with the photos. Venice, after all, is a photograph itself, because it is misleading, ambiguous, and, like a photo, it always expresses itself in the past. Venice, the bitch, offers herself to everyone. It is a non-city, a non-place, but also a commonplace. She's such a beautiful woman that it's hard to think she can really have a soul. And the Venetians slowly abandon it, because a place like this gives no respite.
And yet, to be honest, I take photographs too, maybe because of all those people around. After all, I need more than an hour to get to the Biennale entrance. I walk across the centre, and I hope to get lost, because here, around the corner, sooner or later, Jago, or Casanova, or the lost Aschenbach by Thomas Mann may appear.
But I do not lose myself, and I end by arriving on time at the entrance to the Biennale. There is a quiet line of journalists, critics, intellectuals, artists, insiders, and joiners. Now and then a hand waves, and on the other side someone else replies with a smile or an exclamation of phoney surprise. Then, a little at a time, we enter, and the tour begins. Great.
Yes, it has been great, because Venice is an unreal place, and the Biennale is another unreal place inside the first one. Chinese boxes of dreams. So, for the photographer it's a joy, because everything is posing, everything is strange, everything is poised, everything asks to be photographed, compulsively. After all, considering and considering that life is ambiguous, and does not have a clear sense, moments and places like these end up being a real celebration of the human existence. The Biennale takes you, it's an inexorable Disneyland, you cannot miss it. It has taken me three days to see (almost) everything, in a constant frenzy that contrasted only with an inevitable physical exhaustion. It has been like entering a gigantic videogame, in an amusement park without limits, populated by truly rare characters. And even more, the Director of the Biennale, with a stroke of genius, had planned the expansion of the exhibition to the outside of its usual limits: in fact, Venice hid an infinite number of exhibitions and alternative performances, flashes of modernity that they shone among the folds and the gold of the ancient city.
Around me, intellectuals in swarms, insiders, desire to amaze, to tell, to be seen. Performances everywhere: dancers on sheets of metal, Amazonian indigenous, special effects, artists “en travesti”. How to say ? Come in, ladies and gentlemen, come in. The show goes on. We are here, we photograph, happily passive in the hubbub. I pass by Eva & Adele, two German artists, hermaphrodites by definition, bald and heavily made up, with small white lace umbrellas and chiffon skirts. Thierry Geoffreoy, aka Colonel, smiles at my lens under a blue UN helmet, and in the Dutch pavilion two or three young volunteers emerge from holes drilled in a caravan parked in the middle, to take turns sticking their heads in a big pillow. Tristan Tzara would turn pale with envy.
Not easy to photograph, technically speaking. There is a profusion of darkness, the Italian pavilion will consume at most ten watts per hour. You take your shots hoping in a steady hand.
Two days pass. Then I leave - always too early - Venice with the constant thought of the photos that I could take and I have not taken. But this is the story of a life, and it has nothing to do with it. The mind, as the days pass, relives everything. It is quite clear that the borders are now dissolving. The limits of the territories, both historical-political and intellectual, have disappeared, and globalization is now much more than a macro-economic problem. Everything is contaminated, indefinable, nothing is more sacred and this must be taken into account. Time goes fast, too fast: silicon electronics has relegated thought in the prehistory of the world. Venice, in the meanwhile, sinks slowly, this has been said often and nobody actually realizes it. It came to my mind it by observing those two great white hands of Quinn, arrived from the sea, placed without too much conviction to support the walls of Ca 'Sagredo. They were beautiful, white, reassuring.
But not durable. It seems, in fact, that by now they have been taken away, and nobody knows what to do with them.
Who said, long ago, that art is eternal?