ESSERE UMANI , ESSERI UMANI (Being Human, Human Beings)
VLADIMIR.Well? Shall we go?
ESTRAGON. Yes, let's go.
They do not move.
CURTAIN
VLADIMIRO. Allora? Andiamo?
ESTRAGONE. Sì, andiamo.
non si muovono.
SIPARIO
(S.Beckett: Waiting for Godot)
Nel mio libro poetico Via memoriae / Via crucis (2022) c’è un testo dedicato a Edoardo Sanguineti in cui gli ultimi due versi della prima strofa così recitano: “Tutti, lo sappiamo, guardano, ma quello che conta / È un’ultra-vista, uno scatto di visione, anche spaventosa”.
Analogamente potrei dire che tutti oggi, nell’era dello smart-phone, fotografano, ma pochi sono autori fotografici. La foto d’autore intanto racconta il mondo o, meglio, spicchi, frammenti di mondo in quanto racconta il soggetto che fotografa. Perché, secondo quanto afferma un illustre fotografo come Uliano Lucas, ogni scatto d’autore esprime il suo “punto di vista, una scelta, un’interpretazione”. E qualsiasi scatto d’autore racconta il suo autore, è inconfondibile come una impronta digitale, può averlo fatto solo e soltanto quel soggetto, che si chiami Henri Cartier-Bresson, Luigi Ghirri, Letizia Battaglia o Steve McCurry.
Del pari, ogni scatto in bianco e nero di Ruggero Passeri può averlo scattato soltanto lui e propone la sua visione di mondo, la sua interpretazione della realtà che gli passa sotto gli occhi oppure che lui va intenzionalmente a ricercare nei luoghi della quotidianità diurna o notturna. Non essendo un critico di fotografia o, tanto meno, un esperto di arte dello scatto, ma unicamente uno scrittore curioso del mondo delle immagini fotografiche, non posso che rifarmi a La chambre claire (1980), il celeberrimo saggio di Roland Barthes che ha dischiuso ad ogni profano interessato una preziosa visione semiologica del fare fotografia. In particolare, in quell’aureo libro cruciale è la distinzione che Barthes fa tra studium e punctum. Laddove lo studium concerne “l’applicazione a una cosa, il gusto per qualcuno, una sorta d’interessamento, sollecito, certo, ma senza particolare intensità”. Mentre il punctum “è lui che, partendo dalla scena, come una freccia, mi trafigge. (…) punctum è anche: puntura, piccolo buco, macchiolina, piccolo taglio – e anche impresa aleatoria. Il punctum di una fotografia è quella fatalità che, in essa, mi punge (ma anche mi ferisce, mi ghermisce)”.
Ecco se dovessi trasporre il metodo barthesiano, ovvero il punctum che mi ferisce e mi ghermisce, guardando le fotografie di Ruggero Passeri direi senz’altro che è la quantità di soggetti che sono seduti, stravaccati o, anche soltanto, sdraiati per terra. Penso alla ragazza semidistesa in una poltrona d’epoca, con le cosce dischiuse sotto la gonna tesa in “Fiera antiquaria (Lecce, 2013)”; alla donna anziana seduta sulla carrozzella accanto a un uomo steso supino su una panchina di marmo bianco in “Senza titolo (Roma, 2022)”; all’uomo che guarda il cellulare, stando con le gambe accavallate su una poltroncina con le rotelle, incongruamente posizionata su un marciapiede in “Notturno ai Navigli, (Milano, estate, 2023)”; all’uomo altrettanto incongruamente seduto in riva alla laguna mentre una donna alle spalle gli sta accorciando la chioma in “Parrucchiere privato, Canal Grande (Venezia, 2017)”; alla donna e all’uomo piuttosto anziani buttati su una panchina, infreddoliti e semiaddormentati come un duo da Teatro dell’Assurdo illuminato dai raggi solari radenti in “Coppia, Villa Borghese, Roma, 2016)”; il giovanotto occhialuto sotto una corona di capelli ricciuti, abbigliato come un dandy ottocentesco, seduto in strada dietro un leggio dove c’è la scritta “Poeta” e davanti due pannocchie di mais, con ai piedi una valigia e un bacile per la raccolta delle monetine in “Poeta (Napoli, 1995)”.
Mi fermo qui ad elencare, ma tutti questi scatti di attimi fuggenti o bizzarri o di sospensione, come pure “Pausa (Roma, 2022)” dove c’è un uomo ripreso di spalle e con le gambe incrociate e controluce, appoggiato a un mocio in un tunnel della capitale, mi hanno fatto pensare a L’esausto (1992), un magnifico saggio di Gilles Deleuze che, partendo dalle figure e le posture della drammaturgia di Beckett, evidenzia il tracciato di esaurimento, lo stato di spossatezza, di entropia dell’essere occidentale.
Ecco, questo grado di sfinitezza colgo in molti degli scatti di Passeri, come se il suo occhio errabondo venisse fatalmente attirato e, a sua volta, trafitto da questa umanità svuotata, pressoché stanca, forse annoiata di esserci, di essere al mondo. Un mondo di esausti che si autospecchia e ci rispecchia anche quando l’immagine pare contraddire questo sentimento, penso agli anziani bagnanti che giuocano a bocce in riva al mare in “Partita a bocce (Senigallia 2008)”.
Nell’epochè del mondo virtuale dove ogni giorno si riversano nella rete milioni o miliardi di immagini, quale può essere il perdurante senso di proseguire l’arte dello scatto d’autore? Torno a Barthes che asseriva essere la “fotografia un punto di memoria che sfida la morte”.
Dunque, un vero fotografo, come Passeri, è uno mnemonauta che consegna i suoi scatti ad un futuro, forse impregiudicato e incognito, che continuerà a trans-finire oltre la finitudine della nostra vita.
Marco Palladini.(marzo, 2024)