PORTRAITS _ RITRATTI
La caduta di un privilegio.
“Questa mattina, al museo dove mi sono trascinato di sala in sala, morto di fatica dopo una brutta notte – il letto è troppo duro, e al piumino tedesco non riesco ad abituarmi. Capolavori su capolavori. L’Amazone di Renoir con il suo velo nero che fluttua nel vento, sfuggendo al cappello a cilindro come il fumo da un camino. Ha l’arroganza che ci vuole e sorveglia il suo giovane figlio su un poney focoso, che sprizza scintille dai quattro ferri – sembra averne otto –mentre l’elegante e sdegnosa cavalcatura di madame gli getta un’occhiata da istitutrice. Rochefort di Manet, le mani incrociate sulle braccia, la capigliatura aggressiva, l’abito nero ben tagliato, capace e iroso signore. A centinaia ci guardano dalle loro cornici come dei curiosi alla finestra”. E’ il 29 settembre 1984 e quello che precede è un brano del diario di Julien Green. L’ultima frase mi è tornata in mente guardando i venticinque ritratti di questa mostra fotografica di Ruggero Passeri. Perché in effetti, guardandoli, avevo perso il mio (sia pure povero) statuto di protagonista-osservatore, per trovarmi all’improvviso intrappolato in quello di osservato. La caduta di un privilegio. Da soggetto ad oggetto: un transito non propriamente tranquillizzante. Il fatto è che, come i grandi pezzi di museo di cui parla Green, anche questi ritratti di gente che ha a che fare coi linguaggi detti “creativi” guardano loro chi li guarda: starei per dire, chi si attenta a guardarli. C’è, in tutte queste icone, un residuo meduseo, che è dato dalla consapevolezza di costituire in ogni caso qualcosa di più che un qualsiasi soggetto fotografico, dal momento che la loro è un’identità pubblica anche nel caso in questione in cui il fotografo li abbia fissati nel luogo (abitazione o studio) dove questa identità si esplica produttivamente.
E’ ovvio che- trattandosi di ritratti – il fulcro dell’immagine si concentri nella presenza del volto; ma il carattere particolare di essi risulta dal fatto che la loro ricchezza, la loro inafferrabilità, insomma il loro geroglifico sono dati dalla loro stessa nitidezza, si inscrivono nella pulizia feroce del disegno, capace di utilizzare la luce e l’ombra come un sistema di campiture che esclude ogni sfumato, ogni evaporazione. Il loro sguardo che cerca l’osservatore la sa lunga, viene da lontano, vive di reticenze. Questi personaggi dell’arte e della scrittura, della musica e del teatro, sanno di costituire un doppio rispetto al loro titolare quotidiano: e al tempo stesso lo incorporano e ne prendono le distanze. Direi che la loro è una concentrazione incrociata: complessità dei significati trattenuti e immediatezza della resa fotografica. Ciò che Passeri ha scartato, per intelligenza e fedeltà alla sua sigla di acutissimo percettore di immagini, è qualsiasi ficelle pittoresca. Il suo teatro è funzionale allo specifico e al profilo estetico del personaggio, perlopiù spoglio, comunque sobrio. Il personaggio mangia la scenografia, e in certi casi la irride, o ne sottolinea ironicamente la fatuità ornamentale. Ciò che resta, così, è l’affermazione del volto e della postura, quasi sempre “ordinaria” e quindi – a maggior ragione contrastava – più fortemente significante. Quasi nessuno sorride, in questa galleria di volti: né i più né i meno giovani. E non perché, credo, come disse quella volta Buster Keaton, non c’è troppo da ridere: ma perché, probabilmente, un eventuale sorriso avrebbe finito per rendere troppo accattivante il doppio di cui dicevo, forse impoverendone il potere di allusione, se non il segreto.
Da Nadar a Man Ray, da Cecil Beaton a Gianni Berengo-Gardin a Damiano Bianca a Gianni Bongioanni, per citare solo alcuni fotografi assolutamente particolari, l’arte del ritratto ha giocato carte estremamente diverse: la monumentalità indiscutibile, il paradosso beffardo, l’eleganza manierata, la sperimentazione ossessiva, l’aggressività scultorea. Ruggero Passeri ha giocato - in saldissima coerenza con la sua inclinazione di “colto spettatore delle assurdità del mondo” (Mirella Bentivoglio) - la carta della normalità misteriosa. Ne è venuta fuori, mi pare, una suite che riesce splendidamente a far respirare il proprio enigma nello spazio serrato di luoghi in cui ogni elemento, bruciato nella puntualità scrupolosa dei volti, continua ad essere interrogazione.
Mario Lunetta